Come ho combattuto il Parkinson e sono uscito dalla solitudine

Per tutti noi ammalati di Parkinson, penso, sia semplice parlare della solitudine. Invece vorrei fare alcune riflessioni di come ho combattuto il mio Parkinson nei miei momenti di solitudine e di come ho combattuta la solitudine durante la mia malattia. Sono ammalato da 18 anni e debbo dirvi, con tutta onestà, che a parte i casi che mi accingo a narrarvi, di non essermi sentito mai solo. Debbo dire pure che ho accanto a me una compagna eccezionale che mi assiste in maniera continuativa, la mia 'caregiver', con la quale c‘è un rapporto di complicità assoluta.

Per tutti noi ammalati di Parkinson, penso, sia semplice parlare della solitudine. Invece vorrei fare alcune riflessioni di come ho combattuto il mio Parkinson nei miei momenti di solitudine e di come ho combattuta la solitudine durante la mia malattia.

Sono ammalato da 18 anni e debbo dirvi, con tutta onestà, che a parte i casi che mi accingo a narrarvi, di non essermi sentito mai solo. Debbo dire pure che ho accanto a me una compagna eccezionale che mi assiste in maniera continuativa, la mia ‘caregiver‘, con la quale c‘è un rapporto di complicità assoluta. 

È mia moglie Santina (come poteva chiamarsi altrimenti una vera sicula?), litighiamo spesso e volentieri, così come altrettanto spesso e volentieri facciamo la pace. A lei debbo tutto, sin da quando comparvero i primi sintomi, e fu lei – dopo che io avevo cercato nella mia città ogni possibile specialista, senza che alcuno riuscisse a diagnosticare la malattia – che mi disse: “Sai, c’è un neurologo a Milano che cura Paola, ti consiglierei di fare questo altro tentativo”. A quel punto mi aveva convinto. Andiamo a Milano dal prof. Mariani, un primario dell’Istituto Don Gnocchi, che curava la nostra amica, il quale non appena mi vide camminare, mi disse subito: “Signor Ales, lei per me ha il Parkinson, se domani si ricovera al Don Gnocchi nella clinica dove io esercito, in due o tre giorni le posso dare la conferma”. Ed in effetti questa è stata la mia diagnosi all’uscita dal “don Gnocchi”, dopo i tre giorni canonici. Allora non c’erano altri strumenti per diagnosticare la malattia, se non la visita clinica e constatare che il paziente rispondeva alle terapie sul Parkinson.

Tutti, penso, quando abbiamo avuto diagnosticato il Parkinson, siamo stati presi dal panico e io, tra l’altro, non avendo precedenti in famiglia, né amici o conoscenti che soffrissero di tale malanno, non avevo chiaro cosa mi potesse succedere e cosa mi riservava la vita. Ecco, questo è stato il primo momento di solitudine vera. Pensavo soprattutto a ciò che mi impressionava di più, che era di finire i miei giorni in una sedia a rotelle e quindi la prima cosa che mi venne in testa fu una decisione drastica: rifiutare di vivere, avete capito bene, si proprio così… Qualche giorno dopo, detto fatto, decido di non alzarmi più dal letto e di non mangiare più. In effetti era la scelta più semplice da fare, ritornare dal Padre Eterno senza soffrire molto, non vi pare?.

Fu allora che, quando mia moglie si accorse di ciò che avevo deciso, lei che mi sapeva molto attaccato al lavoro, quando non mi vide alzare dal letto, si preoccupò molto. E senza dire niente andò in un altra stanza e chiamò al telefono mio fratello Dino, il fratello maggiore che lei sapeva avere su di me un ascendente particolare. Non so cosa si siano detti, fatto sta che cinque o dieci minuti dopo, ho visto comparire nella mia camera Dino, il quale mi dice: “Che è sta storia?. Alzati subito e vieni con me”.

Siccome, si usava ancora allora, dalle mie parti, un reverenziale rispetto nei confronti dei fratelli più grandi che, tra l’altro, non essendoci più papà, si sentivano l’onere di sopperire alla mancanza dei genitori, non ho potuto fare altro che ciò che mi diceva lui. Ed io, come un ebete, gli andavo dietro a rispondere alle sue domande, giuste per carità, ma mi sentivo una sensazione di vuoto, un senso di inutilità, fino a quando non mi consigliò di andare dalla dott.ssa Marina Rizzo, avendone sentito parlare bene, come specialista in malattia di Parkinson, e fu così che, da quella prima visita e fino ad oggi, è stata la mia neurologa. È il mio angelo custode.

Ella mi disse subito: “Per prima cosa lei deve accettare la malattia. Questa malattia si può combattere solo se è accettata, sapendo anche che dovrà conviverci tutta la vita”. Instaurammo un bel rapporto tanto che dopo un anno, insieme, a Palermo costituimmo l’Associazione.

Mi andavo man mano convincendo ed allora, giacché avevo raggiunto al Comune di Palermo, quale dipendente, l’anzianità minima per andare in pensione, feci ciò che era stata sempre una mia idea, un mio sogno, ed ora che avevo il Parkinson ancora di più sarebbe diventato lo scopo della mia vita, una cooperativa sociale. Avevo 54 anni nel 1996 quando nacque la Soc. coop. sociale Sviluppo Solidale, che aveva il compito di curare i bambini, disabili, anziani, alcolisti, tossicodipendenti, ecc.

E fu così che decisi di immergermi in questo lavoro e ho imparato a usare, da autodidatta, il computer che mi consentiva di lavorare per più di 10 ore al giorno. Più lavoravo meno pensavo al Parkinson. Alla malattia ci pensavo solo quando dovevo prendere le medicine, che cercavo di non dimenticare mai.

Mi costruii una nuova professionalità, diventai praticamente un imprenditore, ero il Presidente della cooperativa, facevo il cooperatore sociale. Era per me un lavoro affascinante, progettare servizi per il mondo dei bisogni, per chi sta male, per gli ultimi.

E nel giro di tre anni ebbi l’autorizzazione ad aprire tre comunità alloggio per minori che chiamai con tre nomi di fiore: “la violetta”, “la mimosa” e “la rosa tea”. Ebbi anche l’autorizzazione per svolgere i servizi di assistenza domiciliare agli anziani, ai disabili, ai minori. Feci infine un progetto, finanziato dalla Unione Europea, che chiamai “Orchidea”, sulla pedofilia. Era costituito da tre corsi: un primo per laureati, un secondo per guardie carcerarie e la ‘work esperience, che era una formazione in campo per coloro che dovevano poi lavorare con i minori. Questi corsi furono fatti ad alto livello. Invitai grossi nomi, da don Mazzi, a Paolo Crepet, al prof. Alberoni, a professori universitari delle più grosse università italiane. La cooperativa mi diede grandi soddisfazioni Lavorai fino al 2009 quando, a 67 anni suonati e dopo aver fatto la DBS al Policlinico di Milano, mi ritirai dal lavoro andandomene realmente in pensione, questa volta.

Mi piace condividere con voi questa ultima riflessione. Questo lavoro mi ha insegnato che il Parkinson è una malattia di cui non ci si deve vergognare mai, è una malattia di cui si deve parlare con tutti, in tutti gli ambienti, anche per farla conoscere, perché è ancora ai più sconosciuta, in modo da potere aiutare gli altri, chi ne ha bisogno, farne se possibile lo scopo della vita. A 71 anni penso di esserci riuscito, a tutti, i miei sinceri auguri.

E coraggio!

Filippo Ales