Badanti e badati: strane coppie alla ricerca di un’intesa

Ah le badanti! Altro che “madri migranti” come le definisce con poetica semplificazione il Badandum 2011, l’agenda edita da Rizzoli per il Corriere della sera. Rapporto dalle molte sfaccettature, il rapporto tra badante e badato...

Ah le badanti! Altro che “madri migranti” come le definisce con poetica semplificazione il Badandum 2011, l’agenda edita da Rizzoli per il Corriere della sera. Rapporto dalle molte sfaccettature, il rapporto tra badante e badato si fa particolarmente complesso nel caso della malattia di Parkinson che presenta alcune peculiarità che possono costituire dei veri ostacoli all’instaurarsi di un rapporto armonioso.

Questa brava donna che è facile immaginare abbia già i suoi problemi, che spesso parla la nostra lingua male e la capisce peggio, si era aspettata di dover accudire un anziano tranquillo, forse allettato, una persona magari un po’ confusa che non avrebbe chiesto di meglio che di farsi organizzare la giornata da una donna esperta e pratica.

Se queste erano le sue aspettative è indubbio che nel caso di un badato parkinsoniano la nostra “madre migrante” rischi spesso di trovarsi alle prese con una realtà molto diversa Mi sono ispirata per quanto segue al rapporto tra la mia amica Paola e Dania, la sua badante, che ho avuto modo di osservare da vicino nel corso di un recente soggiorno a Firenze.

E quello che è successo a questa brava donna originaria di un paese nei Balcani è che, invece di un vecchietto tranquillo e felice di obbedire alle sue istruzioni, si è trovata a dover gestire una persona che ad essere gestita non ci pensa nemmeno. Nessuno meglio di Paola, infatti, incarna con tutti suoi risvolti a volte drammatici, a volte quasi comici, l’archetipo e le contraddizioni del paziente parkinsoniano creativo, vitale ma, ahimé, insofferente e alle prese con i problemi motori di un parkinson molto avanzato.

Le prime difficoltà che si presentano a una badante senza esperienza di pazienti parkinsoniani è nella bizzarria delle nostre difficoltà motorie: è vero, il nostro equilibrio è precario, ma guai al benintenzionato che si azzardi a sostenerci energicamente, a noi basta un braccio da sfiorare con due dita per ritrovare l’equilibrio perduto. E guai anche a chi, con le migliori intenzioni e con la massima delicatezza, provi a tirarci o a spingerci anche leggermente. Là dove una persona colpita da altre patologie sarebbe incitata ad avanzare, la persona affetta da parkinson non potrebbe che fulminare il volonteroso soccorritore con un urlo più che giustificato in quanto, se i piedi sono come incollati al pavimento, anche una trazione minima non può che farci perdere l’equilibrio. E come riuscire a fare capire a chi di parkinson non sa nulla che mettere fretta a uno di noi è il modo ideale per paralizzarlo completamente? Le difficoltà sono molte e quello che ci vorrebbe da parte della badante è l’umiltà di capire che ci sono cose in questa malattia che nessuno può immaginare da sé e che non hanno nulla a che vedere con i normali problemi motori di una persona anche con gravi difficoltà di movimento (per esempio le sequele di un ictus).

Ma pretendere l’umiltà da questa “madre migrante” è chiedere troppo. Già provata dalla sua condizione di straniera lavoratrice, la nostra Dania ha riposto tutto il suo umano orgoglio nell’essere una brava badante e piuttosto che ammettere di avere qualche cosa da imparare farebbe harakiri come un samurai davanti all’imperatore. No, Dania ritiene di sapere tutto, e quello che ha imparato accudendo Paola, l’ha imparato per osmosi e abitudine, senza uno sforzo cosciente e deliberato. Ma quello che più manda Dania in tilt è la pretesa di Paola di “vedere gente e fare cose”, insomma di servirsi della sua badante per avere una vita propria e cioè per essere accompagnata dove deve andare – mettiamo a cena in casa di amici – e per essere venuta a prendere a serata finita. Macchè, niente da fare. Dania si piazza in macchina e aspetta al gelo per ore quando potrebbe benissimo tornarsene a casa. Con l’evidente intenzione di suscitare in Paola degli schiaccianti sensi di colpa per averla esclusa dall’invito, e ottenendo, invece, solo di esasperarla e irritarla vieppiù. Così sono discussioni a non finire quando Paola – che d’abitudine divide la tavola con Dania – avendo ospiti a pranzo o a cena – chiede del tutto ragionevolmente, mi pare – di essere lasciata sola con loro.

Ma il terreno sul quale lo scontro si fa rovente e senza esclusione di colpi è quello della somministrazione dei farmaci, che Paola ha delegato completamente e incautamente a Dania e che Dania considera la più prestigiosa e qualificante delle sue incombenze. Senza che ci sia modo di farle capire che ci sono momenti in cui, per mille motivi, un parkinsoniano di lungo, anzi lunghissimo corso può aver bisogno – con il beneplacito del suo stesso neurologo – di una dose in più di levodopa rispetto a quelle previste dalla tabella quotidiana. Negargliela può voler dire, allora, condannarlo al calvario di un lungo e profondissimo “off”. Ma, per quanto io mi sia improvvisata neurologo e farmacologo per spiegarle il carattere puramente sintomatico dei farmaci e le molte bizzarrie del loro funzionamento, Dania ha resistito caparbiamente, capitolando solo dopo musi lunghi e interminabili discussioni.
Paola ha segnato 100 punti, ma lo scontro continua, e ad ogni giorno che il buon Dio manda in terra la tragicommedia riprende e in questo calderone di emozioni che è il loro rapporto, ribolle di tutto.

Il commento che, alla fine di quei tre giorni passati con loro, mi è salito alle labbra salendo sul treno che mi riportava a Milano è stato la lapidaria sentenza di Sartre: “l’enfer c’est les autres”.

(Lucilla Bossi, presidente Parkinson Italia Onlus)