“Nessun dottore aveva mai correlato i sintomi al Parkinson…”

Finalmente ho deciso di raccontare la mia storia relativa alla malattia di Parkinson. Ho una forma di Parkinsonismo detto genetico o ereditario, perché nel mio DNA c’è un gene modificato. Questa bellissima “eredità” mi giunge dal nonno di mia madre. Ciò vuol dire che ne sono affetto dalla nascita ma i sintomi sono rimasti latenti.

Finalmente ho deciso di raccontare la mia storia relativa alla malattia di Parkinson. Ho una forma di Parkinsonismo detto genetico o ereditario, perché nel mio DNA c’è un gene modificato. Questa bellissima “eredità” mi giunge dal nonno di mia madre.

Ciò vuol dire che ne sono affetto dalla nascita ma i sintomi sono rimasti latenti (anche se ricordo un po’ di tremore alle mani in casi di stress) fino al 2001, quando si è palesato in modo evidente.

Ho saputo successivamente che i sintomi della malattia “insorgono” a causa di un evento molto devastante della propria esistenza e in concomitanza di una leggera depressione ma logicamente non è una regola che vale per tutti!

Ora, con la mia mente, ripercorrendo gli anni indietro, riesco a spiegarmi il perché della mia scarsa o ridotta motricità e di tutti gli sforzi immani che facevo durante le ore di educazione fisica per stare al passo dei miei compagni o alla fatica maggiore da me riscontrata durante passeggiate in montagna che tanto mi piacevano fare.

Nella fine del 2001 mi sottoposi ad un intervento di ricostruzione dei legamenti crociati anteriori al ginocchio destro e per farla breve ho avuto delle complicazioni post operatorie causate dalla crisi di rigetto che ho avuto. Sono stato 55 giorni all’ospedale con dolori fortissimi, giorni durante i quali i medici non sapevano cosa fare, brancolavano nel buio, continuavano ad eseguire centesi per analizzare il liquido sinoviale che stranamente risultava ok, giorni i quali non dormivo né di giorno né di notte a causa dei forti dolori causati dall’inizio di una infiammazione da loro non riscontrata. Che progrediva e ho rischiato di perdere la gamba.

Iniziai ad essere aggressivo contro i medici e il personale sanitario, gridavo, insomma ho iniziato a dare segni di “squilibrio”, per cui mi hanno fatto fare una visita psichiatrica dopo la quale hanno iniziato a somministrarmi sonniferi, tranquillanti, ipnotici, antipsicotici, barbiturici e antidepressivi.

Quando me li somministravano, scherzosamente i miei compagni di stanza ripetevano: “arriva la farmacia” Finalmente dimesso iniziai la riabilitazione che è stata uno strazio: non avevo le forze per stare in piedi figuriamoci se le avevo per fare gli esercizi, zoppicavo, il ginocchio mi faceva male, avevo continui versamenti di liquido e dovetti smettere.

Quando fu il momento di iniziare a camminare con mio sommo dispiacere constatai che oltre ai dolori del ginocchio mi sentivo tremare le gambe e le mani, non riuscivo a fare i passi e miei piedi sembravano incollati al pavimento. Li strascicavo per terra per muovermi e, oltre a sentirmi ferito nell’orgoglio, mi dovevo subire le solite frasi di circostanza da parte dei miei amici, parenti, familiari nonché persone che conoscevo.

Intanto la depressione dilagava, non capivo cosa mi stesse accadendo, la mia famiglia, gli amici e i conoscenti credevano che fosse una mia mancanza di forza di volontà mi spronavano anche in malo modo. Mi incavolavo talvolta piangevo di nascosto, ogni sera pregavo credendo che qualcuno dall’alto mi illuminasse su ciò che mi stava accadendo. La fede in qualunque sua forma dà sollievo e infonde fiducia, quella marcia in più che ti dà la forza per sopportare il dolore.

Non nascondo che in certi momenti ho pensato al modo in cui la mia vita scorreva veloce e non me ne accorgevo: giungere ad un atto estremo, ma chi lo dice e lo pianifica non lo mette mai in atto. Uno compie un gesto estremo in uno stato di incapacità di intendere come in un raptus istantaneo.

Proseguii con gli psicofarmaci anche se ne ridussi le dosi fino a quando il mio attuale psichiatra un sant’uomo che a differenza degli altri trovò la giusta combinazione di farmaci e mi catturò con la sua determinazione mi ha profuso competenza e professionalità e credevo fermamente in lui.

Mi dilungo sulla storia dei farmaci perché questo fatto ha un rilievo per gli avvenimenti successivi. Tutt’ora li prendo, sono forti, mi stordiscono ma li devo prendere. Il calvario che mi portò alla scoperta della malattia durò per altri 4 lunghissimi, pessimi, dolorosi, frustranti anni della mia vita.

L’ancora sconosciuta malattia avanzava lentamente, inesorabilmente fino ad arrivare al punto di farmi tremare dalla testa ai piedi anche a letto a riposo regalandomi notti insonni, crampi e dolori muscolari. Pensavo dentro di me che fosse giunta la mia fine… Ero un uomo di 35 anni fallito, distrutto psicologicamente e fisicamente, senza una mia famiglia, una ragazza come è normale per tutti… Ero pervaso da un senso di frustrazione, di disorientamento e di colpa, e mi sembrava di percorrere un tunnel senza neanche vedere uno spiraglio di luce.

Abbandonato dagli amici, continuamente ferito nell’orgoglio, e privato della cosa che sino ad allora era il mio obbiettivo: lavorare e fare carriera perché a me il mio lavoro piaceva ed ero già a buon punto. Non potete immaginare che smacco quando rientrai al lavoro: munito di stampelle sorriso di circostanza e tanta forza di ricominciare entrai nell’ufficio e i miei collaboratori, il mio capo, una persona della proprietà non alzarono neanche la testa dalla scrivania, non un saluto, né una domanda. Neanche la peggiore delle bestie si tratta in questo modo!

Era mobbing pianificato a tavolino: le mie collaboratrici avevano l’ordine dalla Proprietà di non parlarmi, erano sotto minaccia della perdita del posto di lavoro, c’era sempre presente in ufficio una persona della Proprietà pronta a stroncare sul nascere qualsiasi contatto con le mie colleghe. Il clima era un inferno, mi controllavo quando mi alzavo dalla scrivania per andare a prendere un caffè riuscivo a scambiare quattro parole con chi del mio ufficio veniva in mensa, finché un bel giorno (non ne erano passati tanti) visto il mio perseverare a recarmi al lavoro fui chiamato dal mio capo nel suo ufficio che a quattr’occhi mi disse “Antonio hai un problema” e io chiesi “Quale?”, rispose “la proprietà non ti vuole più. Utilizza i permessi e le ferie per cercarti un altro impiego”.

Del resto a quelle condizioni, con il PC che a stento si accendeva, ripescato non so dove, col trattamento riservatomi, con la mia fragilità della psiche come avrei potuto pensare di andare avanti? Persi il lavoro.
Nessun dottore che mi aveva visitato aveva mai correlato i sintomi al Parkinson, fino a che decisi di recarmi da un neurologo al Besta di Milano che al principio mi diagnosticò un parkinsonismo iatrogeno (ossia dipendente da farmaci) poi, visto che le cose andavano allo stesso modo, mi fece fare una PET al Policlinico e diagnosticò la malattia di Parkinson. Al momento mi dissi Eureka abbiamo risolto il mistero, così potrò curarmi… ma per strada pensavo già a cosa sarei andato incontro.

Sapevo per sommi capi cosa comportava, perché mia madre qualcosa di suo nonno mi aveva detto, ma ignoravo il fatto che ci fossero molteplici sintomi, fu il mio neurologo a dirmi che ogni malato è un caso a sé.
Col passare degli anni, in sede di visite di controllo il neurologo mi disse che purtroppo a me la malattia ha colpito gli arti inferiori e che ciò si andava a sommare con i miei problemi alle ginocchia. Pensai dentro di me: “piove sul bagnato” ma, rassegnato, mi dissi “Che differenza fa? Una in più, una in meno… tanto la vita è già rovinata!”.

Che pirla, Antonio, che sei stato, a pensare ciò! Vedo tanti parkinsoniani che sgambettano anche se con difficoltà di equilibrio e camminano e vanno ovunque… invece io porto il bastone e quando le ginocchia si infiammano non ce n’è più per nessuno.
Antonio Buonanno