(DBS) “Mentre i medici parlavano con me, sentivo che con un trapano mi bucavano la testa”

Anche se ammalati di Parkinson, si può trascorrere una vita più o meno normale, più o meno serena. La prima cosa da fare, per chi ha avuto una diagnosi di Parkinson è di non scoraggiarsi, e abituarsi ad accettare la malattia per quella che è, in modo da poterla combattere. Questa è la storia di Filippo Ales.

Anche se ammalati di Parkinson, si può trascorrere una vita più o meno normale, più o meno serena. La prima cosa da fare per chi ha avuto una diagnosi di Parkinson è di non scoraggiarsi e abituarsi ad accettare la malattia per quella che è, in modo da poterla combattere. Questa è la storia di Filippo Ales.

La malattia di Parkinson è una malattia molto diffusa nel mondo. Si stima sia la seconda malattia più frequente dopo l’Alzheimer e che colpisca in Europa più di un individuo ogni 500 persone. Considerato l’enorme numero di malati affetti dalla grave patologia, credo sia interessante saperne di più, al fine di poterla curare e creare una rete, soprattutto per accudire chi in casa ha un “parkinsoniano” e per attivare i servizi sociali di cui questa malattia necessita.

Sarebbe utile che in tutta Italia, potessero svilupparsi tanti gruppi di auto-aiuto e di sostegno sociale (oltre ai molti già esistenti, ma non sufficienti) per chi ne ha bisogno e, credetemi, sono tanti, sono troppi, coloro che hanno bisogno di aiuto.

Dalla malattia di Parkinson non si guarisce con una cura, ma vanno sperimentate, di volta in volta, le terapia per renderla meno aggressiva, ad esempio, nel mio caso, la DBS o Stimolazione Cerebrale Profonda. Possiamo dire che oggi il Parkinson è una malattia progressiva e invalidante, pertanto è una malattia che ha bisogno di cure continue. 

Ciò che necessita è consentire al paziente di svolgere al meglio le sue funzioni quotidiane, in modo da rendere più vivibile la qualità della vita del parkinsoniano. 

Quando decisi di fare il passo che sto per raccontarvi (l’operazione di DBS, Deep Brain Stimulation) il mio neurologo curante, la dott.ssa Marina Rizzo, mi consigliò di andare al “San Paolo” di Milano, sicura che avrebbero saputo gestire al meglio la preparazione all’intervento. La dott.ssa Rizzo godeva della mia fiducia e della mia stima. 

Armi e bagagli partii accompagnato da mia moglie, che mi ha sempre seguito nella gestione del mio Parkinson, per Milano (per la cronaca, io risiedo a Palermo). Al S. Paolo di Milano seguii un’accurata preparazione, nel corso della quale i neurologi e psicologi, guidati dal dott. Filippo Tamma, mi spegaronobene l’intervento al quale mi sarei dovuto sottoporre, dicendomi molto chiaramente ciò che di brutto poteva succedere, ma anche i vantaggi che avrei ottenuto.

Io, per fortuna, avevo affrontato il problema in tutti i suoi aspetti con mia moglie e i miei figli ed ero deciso a fare l’intervento. A me il Parkinson portava rigidità nei movimenti, provocandomi spesso anche brusche cadute, qualche volta con lesioni varie, soprattutto alla spalla. Ma ciò di cui maggiormente mi lamentavo, e che mi dava più fastidio, era la discinesia (ovvero movimenti involontari, alla testa, agli arti).

Soprattutto quando ancora lavoravo e svolgevo anche ruoli pubblici, le discinesie per me erano diventate sempre più insopportabili. Mi sentivo osservato da tutti e incompatibile con il ruolo che svolgevo per il mio lavoro. Ero presidente di una cooperativa sociale che si occupava di disabili, anziani, minori, tossicodipendenti… e svolgevo anche attività di rappresentanza. 

Il parkinson mi era stato diagnosticato nel 1996, ma ne soffrivo già da molto tempo prima. 

Torniamo al S. Paolo. Mi spiegarono che vi erano due tipologie di intervento possibili in rapporto ai risultati che si volevano raggiungere e in rapporto ai disturbi di cui soffrivo. Gli interventi che si potevano eseguire erano due: al pallido ed al sub-talamo. Per loro, l’intervento “al pallido” era quello che mi avrebbe dato i risultati migliori, soprattutto per la discinesia. 

Io pensai che giacché tutti si orientavano sul sub-talamo, i miei medici volessero sperimentare il pallido, perché non veniva praticato da una decina d’anni e ne volevano testare i risultati (sarò stato una mala lingua… ma io l’ho pensato!). Dopo 15 giorni tornai a casa, e mi preparai al grande passo, che sarebbe avvenuto in un giorno indimenticabile, il 29 Febbraio 2008, giorno bisestile sul calendario. 

Arrivai qualche giorno prima e mi sistemai al padiglione Beretta. Conobbi il dott. Egidi ed il dott. Locatelli, neurochirurghi bravissimi e una schiera di infermieri professionali, anche loro molto bravi. Appena arrivato non mi fecero prendere più le medicine che prendevo in quel momento (levodopa e mirapexin) e mi prepararono per l’intervento che doveva svolgersi la mattina seguente. 

La cosa che mi impressionò di più fu il sapere che sarei stato con un casco di ferro imbullonato alla testa e che l’intervento sarebbe durato circa otto ore. Io ho un nipote medico chirurgo, molto affettuoso, che volle accompagnare me e mia moglie a Milano e, una volta arrivati al “padiglione Beretta”, chiesi al dott. Egidi se mio nipote, medico, potesse assistere all’intervento. La risposta fu positiva e allora presentai a Egidi il dott. Fabio Santangelo e fui felice di sapere che avrei avuto accanto in quei momenti mio nipote Fabio. 

Mi portarono a fare la Tac, mentre la risonanza magnetica me la fecero fare in altro ospedale, al “S. Raffaele”.

Siamo al giorno fatidico. Non facevo altro che pensare e ripensare… Ecco perché al San Paolo tentavano di scoraggiarmi dal fare l’intervento… E se non fossi tornato vivo? Pensavo ai miei figli, a mia moglie, e pensai che l’unica cosa da fare era pregare. Così feci per ore. 

Però Egidi mi faceva parlare in continuazione, mi chiedeva mille cose diverse, mentre mi imbullonava la testa dentro un casco di metallo, fino a quando non si mosse più e non potei guardare che un solo punto alla parete.

Il tempo passava, i medici scherzavano e per fortuna c’era Fabio accanto a me, che mi stringeva la mano e cercava di tenermi sveglio. Forse non ve lo avevo ancora detto: l’intervento non è in anestesia generale perché il paziente deve essere sveglio e collaborante. 

Mentre i medici parlavano con me, sentivo che con un trapano mi bucavano, in diversi punti, la testa. Alla fine mi resi conto che mi avevano praticato fori in sei punti diversi. Non potete immaginare come ci si sente: il fastidio di non potersi muovere, il non sentire dolore mentre con il trapano ti bucano la testa (credo che iniettassero anestesia in superficie), e tra un buco e l’altro sentivo i medici che ridevano, raccontavano barzellette, cercando anche di coinvolgermi, nel tentativo di farmi sentire a mio agio.

Mentre le ore passavano, i medici ‘traccheggiavano’ con i fili: erano i diodi, che dalla testa sarebbero stati collegati ad una batteria posizionata in un punto sul petto, al lato destro. Questo avvenne in un secondo intervento che fu fatto dopo tre giorni dal primo, in anestesia generale, di durata inferiore, all’incirca due/tre ore.

Ma torniamo al primo. Cominciarono a togliermi i bulloni che legavano il casco, operazione questa che durò moltissimo. L’intervento finisce qui. È inutile dirvi che a quel punto ero veramente sfinito. Cominciavo a non farcela più. Per fortuna Fabio continuava a parlarmi e poi mi disse, finalmente, “Abbiamo finito!”.

Uscii dalla sala operatoria, ricordo che un pianto liberatorio mi fece abbracciare mia moglie e i miei figli che mi aspettavano, fuori la sala operatoria, da oltre otto ore.

Filippo Ales