Il libro Bianco: Intervista a Michele Marzulli

Marzulli, membro dell’équipe di ricerca del Progetto “Libro Bianco della malattia di Parkinson” e docente a contratto di Sociologia generale delle professioni motorio sportive presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, risponde alle domande sulla ricerca in atto.

Intervista a Michele Marzulli

di Silvia Rezzaghi

 

Membro dell’équipe di ricerca del Progetto “Libro Bianco della malattia di Parkinson” e docente a contratto di Sociologia generale delle professioni motorio sportive presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano.

Professore perché la ricerca del ”Libro Bianco”, sebbene oggi a metà del suo percorso, si è rivelata già interessante?
Perché Parkinson Italia ha messo insieme competenze diverse (sociologi, medici e volontari), ed è riuscita a creare un contesto di lavoro nel quale l’associazione mette i suoi valori, legati alle persone e ai loro famigliari, ma poi ha permesso di affrontare il tema con un approccio multi disciplinare e multi dimensionale. E questa è la strada maestra per affrontare i problemi delle persone. Nei “focus group” e nelle interviste che abbiamo appena completato emerge, infatti, una certa separazione tra il consolidato mondo della ricerca medica in senso stretto e quello della ricerca sociale più attenta agli aspetti relazionali che solo apparentemente si possono considerare secondari.
A che punto siamo con la ricerca?
Al 50%, abbiamo già fatto interviste in profondità, focus group ed il questionario è in dirittura d’arrivo. Vi sono due questionari, uno indirizzato al malato e l’altro al caregiver, entrambi cercano di affrontare tutte le dimensioni della malattia, approfondendo aspetti diversi sia di tipo sanitario che sociale quali per esempio: il ruolo del caregiver e le sue difficoltà nell’assistere il malato, l’utilizzo delle tecnologie sia da parte del caregiver che del malato, il ruolo e la funzione delle associazioni di pazienti, la percezione della malattia sia dalla parte del malato che del caregiver, il livello di soddisfazione della vita e gli orientamenti valoriali, più molti altri ancora.
Nell’immaginario collettivo la percezione del Parkinson è quella di una malattia che “fa paura”, cosa ci dicono i primi dati?
Infatti, il punto è come fare a trasformare la malattia in qualcosa che non faccia paura. Qualche neurologo parla addirittura di “stigma” legato principalmente alla mancanza di informazione. Ci sono problemi che rasentano la discriminazione nel lavoro, nella famiglia, soprattutto quando i malati subiscono la paura che l’ambiente intorno vive. Vi è la tendenza a nascondere la malattia sul luogo di lavoro, spesso si confonde il Parkinson con l’Alzheimer e si sottovaluta la rappresentazione sociale della malattia.
Perché è importante che per la prima volta venga fatta una ricerca mirata anche a far emergere l’aspetto relazionale della malattia?
Il valore degli aspetti relazionali è importantissimo perché ancora non abbiamo percorsi di cura definiti e condivisi come per gli aspetti clinici. L’aspetto principale è l’emotività, segnalata spesso anche dai medici, i comportamenti inadeguati dei malati sono in realtà parte della malattia ed in quanto tali non devono essere sottovalutati o demandati ad altri. Alcuni malati segnalano che a seguito della diagnosi della malattia inizia un periodo di depressione e di scarsa capacità di reazione, ciò è spesso causato dalla non conoscenza della malattia, di cosa è, di come si cura…
Il medico di base, necessariamente, ne sa poco: a Milano ad esempio ogni medico di famiglia può avere mediamente quattro malati di Parkinson al massimo. Quindi giocoforza non avendo magari una formazione specifica sulla malattia tende a delegare molto allo specialista. Ma anche in questo caso, per esempio, non esiste un vero punto di riferimento condiviso cui indirizzare i pazienti. E anche questo può causare una grande perdita di tempo nell’ individuare il giusto luogo di cura: e anche questo non è escluso che contribuisca a una certa fase depressiva inziale della persona.
Cosa è emerso dai “focus group”?
I focus group hanno fatto emergere ciò che mette in crisi il malato ma anche ciò che lo fa sentire bene, come le cura non farmacologiche e la condivisione. La danza e il ballo per esempio piace, fa bene, “ti fa sentire bene”, da una sensazione di benessere generale (e non solo fisica). Il ”Nordic walking”, per fare un altro esempi,o allenando il cervello aiuta anche nella coordinazione motoria e piace “perché ti permette di evadere, di non stare in casa, di uscire dalla depressione”. Tutto ciò a sottolineare ancora una volta l’Importanza dell’auto e mutuo aiuto, della condivisione, la dimensione psicologica del condividere da cui nasce il desiderio di rivolgersi alle associazioni, il luogo in cui uno è se stesso senza la paura a mostrarsi e dove si propongono attività di gruppo ed un supporto psicologico e umano.
Se dovesse fare un breve elenco dei primi temi emersi nella ricerca, quali segnalerebbe ?
1. Il Parkinson come malattia di malattie, cioè la sua dimensione complessa e plurale.
2. Per i malati ed i caregiver l’importanza delle cure non farmacologiche e della qualità della vita, la preoccupazione del paziente sulle conseguenze del condizionamento della vita del caregiver familiare, il senso di colpa verso il caregiver, “quanto io paziente lo limito nello svolgimento della sua vita”.
3. La centralità della dimensione psicologica del malato di cui poco ci si fa carico, e comunque non in maniera sistematica e istituzionale.
4. Molto viene delegato al neurologo parkinsonologo ma “chi si occupa del coordinamento e dell’integrazione delle problematiche legate alla malattia?”.
5. La questione della mancanza di formazione per i caregiver familiari e professionisti è centrale.
6. Le Associazioni: chi partecipa alla vita associativa la reputa fondamentale, è importante per l’aspetto solidaristico più che non per la parte informativa.