Mr. Parkinson tra tenerezza, volontà… e anche un sorriso di Giangi Milesi

Mai visto così affollato l’auditorium del Carisma: gente in piedi tutto intorno alla sala, nonostante l’aggiunta delle seggiole del giardino. Gente attenta che ha ascoltato in silenzio l’esternazione di monsignor Francesco Beschi. 

Non la riflessione colta e ficcante a cui il vescovo di Bergamo ci ha abituato, ma il racconto dell’esperienza del figlio che si prende cura della mamma col Parkinson.

Esperienza che dimostra come nella malattia si possa aumentare la dimensione della tenerezza, spiega Beschi. Lui non lo dice, ma don Francesco si presenta così, in maglione, per accogliere da pari il nostro invito a raccontarsi, a fare coming out. O forse piace a noi immaginare che il vescovo si sia unito al nostro proposito di squarciare lo stigma, l’omertà, il silenzio, l’isolamento che circondano il Parkinson. Non potevamo sperare in un esempio più prestigioso. E in un discorso più toccante.

Nonostante l’abitudine a parlare in pubblico e l’ennesimo premio “al merito” (ricevuto due giorni prima dalle mani del Prefetto a nome di Sergio Mattarella), Marco Guido Salvi è visibilmente emozionato, ma fortunatamente ha trascritto la scaletta delle tante cose da dire, delle decine di persone da ringraziare. Ma è alla lettura dei nomi degli intervistati che hanno saputo mettere in piazza le loro vite e quelle dei loro familiari (i 15 che hanno fatto coming out e i due caregiver) a scatenare l’applauso più insistente, caloroso e riconoscente del pubblico. Chi ho sentito successivamente per commentare l’evento si è diviso nel giudizio sul momento più emozionante fra il racconto del vescovo e gli applausi.

Poi il microfono è passato a Paolo Aresi per condurre gli interventi, a cominciare dagli autori. Telegrafici entrambi. Sabrina Penteriani ha raccontato la genesi del progetto e spiegato come tutte le interviste riguardino persone che hanno saputo reagire alla malattia, facendone un nuovo punto di partenza. Cioè esempi concreti di “resilienza”. Nella postfazione, la giornalista – anche lei recentemente premiata a Firenze per la sensibilità dimostrata in un analogo lavoro – ci regala una bellissima metafora della resilienza: il kintsugi, l’arte giapponese di rimettere insieme i cocci cementandoli con l’oro, ottenendo così vasi e sculture ancora più belle di quelle che abbiamo mandato in frantumi.

Anche per apprezzare il lavoro del fotografo dobbiamo rifarci alle sue opere: chiamato a intervenire al microfono, Giovanni Diffidenti prende più tempo per raggiungere il
palcoscenico dal fondo della sala dove si era rifugiato che per dire le due-parole-due che pronuncia a ringraziamento di chi “gli ha aperto la casa e il cuore”.

Puntuale e competente l’intervento di Giorgio Gori (da sempre secchione visionario e fecondo è ormai consuetudine chiamare il sindaco di Bergamo per interventi illuminanti e non per gli insulsi e rituali saluti). Gori va al cuore del problema: oltre le terapie, sono indispensabili le relazioni familiari e le relazioni sociali per fronteggiare la malattia. E tira così la volata al mio intervento sul ruolo delle associazioni impegnate ad assicurare tale “socialità”. Ma che devono superare la frammentazione che le rende inadeguate. Il libro incoraggia la collaborazione mettendo insieme (fra i 17 intervistati) i vicepresidenti delle tre principali organizzazioni nazionali: Marco Guido Salvi dell’Associazione Italiana Parkinsoniani, Giulia Quaglini della Confederazione Parkinson Italia e Stefano Ghidotti del Comitato Italiano Associazioni Parkinson. E l’elenco non è finito: ci sono anche i Giovani Parkinsoniani (Bice Zumbo, la loro presidente è in sala e ha portato recentemente l’associazione a federarsi con Parkinson Italia).

Tutti gli oratori hanno fatto cenno, con parole diverse, alla personificazione della malattia che ci consente prima di fronteggiarla, odiandola poi di controllarla, convivendoci. Questa è la ragione che ci ha spinto a far parlare Mr. Parkinson, a rendere la malattia protagonista del libro.

Qualcuno mi ha chiesto perché mai Mr. Parkinson dovrebbe collaborare a far sparire il
titolo di “morbo”. Ho risposto anticipando la spiegazione che Mr. Parkinson darà nel corso della campagna Non chiamatemi morbo!, quando dal libro passeremo a una mostra nazionale itinerante che presenterà anche nuovi casi.

A commento della foto di Alessandro Gullotta scattata da Giovanni Diffidenti (vedi la foto allegata) sentiremo Mr. Parkinson recitare:

…e Alessandro? Ma si può? Quando gli hanno diagnosticato il Parkinson, cioè me, il
dottore gli è sembrato così triste che per tirarlo su gli ha raccontato… una barzelletta. Lui, il malato. Al dottore.
Ma insomma! un po’ di serietà!
Invece di sentirsi distrutti, marchiati dallo stigma sociale, i malati, oggi, reagiscono; anche
spiritosamente.

Certo, dopo la barzelletta, tornato a casa, Alessandro si è sentito smarrito, arrabbiato,
isolato: il mondo gli crollava addosso….
E io pensavo già di averlo di nuovo in pugno!
E invece? non mi va a iscriversi a un corso della Croce Rossa per diventare clown
dottore…? per portare nelle corsie d’ospedale la terapia del SORRISO… ? e affrontare così
– ridendo – sia l’isolamento sociale… CHE ME.

Sì perché così limita anche me, che non posso più approfittare delle fluttuazioni – tipiche
della risposta ai farmaci – per insinuarmi , con la depressione, la stanchezza.

SOSPIRO RASSEGNATO
Si, una risata mi sta seppellendo, e il pensiero che la vita sia comunque bella – nonostante
tutto – se continui a saperle sorridere… mi spiazza, mi ridimensiona.
Ma come? Non ero io IL MORBO, non facevo paura solo a nominarmi? Che morbo sono se
basta un po’ di buon umore per tenermi a bada?

di Giangi Milesi

 

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